Carlo Adelio Galimberti |
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consentito l'uso parziale di immagini e testi citando la fonte. Per altri utilizzi consultare l'autore Recensione di ANTONIO MUSUS alla personale della Galleria Ponterosso La pittura di Galimberti Avete mai visto un pittore al lavoro? A me è capitato di vedere Galimberti che dipingeva mentre non si accorgeva d’essere osservato. Aveva due zucche su di un tavolino illuminate da una candela. Quando poi abbiamo parlato gli ho chiesto perché usasse una candela per illuminare il soggetto. Mi ha detto che la luce della fiamma indora la pelle, come non fa la luce naturale o quella artificiale. “La pelle? Ma si tratta di una zucca”, gli ho obiettato. Mi ha detto che una zucca o un corpo umano per un pittore sono la medesima cosa, esercitano la medesima attrazione, richiedono tanta manifattura a fare un quadro buono di fiori, come di figure. Ma torniamo a quando lavorava solitario: l’avreste visto porsi di fronte al supporto da dipingere con una concentrazione curiosa: alternava posizioni fermissime di intenso raccoglimento ad altre irrequiete ed eccitate, quasi come un danzatore. Pareva sedotto dall’opera che si apriva davanti a lui ed egli la esplorava, la circondava, la voltava. Pareva innamorato. Aveva pose fisicamente coerenti con questo sentimento: quello dell’amore che sospende la ragione per percorrere felice i sentieri dei sensi. Galimberti davanti all’opera e alla materia dei colori non rivolge parole, ma gesti. Agisce con l’opera segnandola, integrandola gestualmente, assecondandola con l’avvicinarsi e l’allontanarsi dalla sua progressiva rivelazione, inseguendola con lo sguardo, voglioso e delicato. Sono atteggiamenti da innamorato che approfitta della tregua della ragione per far dire, cantare, esprimere la materia cromatica che dà vita all’opera. Al termine gli ho chiesto perché in questa mostra ci fosse quest’affollamento di citazioni d’opere d’arte celebri. Mi ha detto che il fascino dei grandi maestri gli ha sempre rapito lo sguardo. Quei suoi occhi a cui vegghiar costò sì caro come pintor che con essemplo pinga. Alla fine gli ho chiesto dove avesse imparato. Mi ha detto che il mestiere del dipingere s’impara, ma il talento no. Il talento è qualcosa che si possiede senza sapere donde proviene. È qualcosa che ha l’indifferente potenza della Natura od anche del divino: la deità ch’ha la scienzia del pittore fa che la mente del pittore si trasmutta in una similitudine di mente divina. “Via, su”, gli ho detto. Avrà pure un suo segreto per esercitare questa sua accattivante maniera. Mi ha risposto di no, non ha segreti e che per dipingere conviene avere fantasia et opperazione di mano, di trovare cose non vedute, cacciantesi sotto ombra di naturali e fermarle con la mano. Dando a dimostrare che quello che non è, sia. Antonio Musus
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