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E se gli artisti mentissero?
editoriale per il n° 51 di "Grafica d'Arte", Settembre-Dicembre 2002

 

So che non ci crederete, eppure l’altro giorno mi ha scritto Van Gogh. Sapete tutti che la quantità di lettere che ha scritto sono di poco inferiori al numero delle sue opere. Ebbene non ha ancora smesso. Con la lettera che ieri ho ricevuto, oltre alla richiesta consueta di qualche spicciolo, viste le quotazioni che hanno raggiunto i suoi dipinti, mi chiedeva anche alcune spiegazioni. Dice di aver dato un’occhiata ad alcune sale dei musei d’arte moderna che ospitano i suoi quadri. Non capiva cosa fossero alcune “scatole azzurre” (lui ha definito così i video) che stavano in qualche sala più in là, e si domandava come mai i musei di arte contemporanea fossero in perenne allestimento, visto che ci ha trovato stracci, fili di ferro, pezzi di vetro o legnetti vari. Mi ha detto che ha anche inciampato in una fila di sassi «dimenticati» (mi ha scritto proprio così) sul pavimento in una sala, in fondo alla quale c’era anche una statua di Venere in gesso dimenticata sopra a un cumulo di stracci. Ho pensato di telefonargli: a voce forse ci si spiega meglio.

Pronto? Ciao Vincent. Intanto grazie per la tua splendida e, come al solito, struggente lettera. Credimi è una grande emozione ogni volta che ricevo notizie da te.  Come si fa, infatti, a non sentire tutta la commozione che questo tuo nome sa evocare: come si fa a non ricordare e quindi a non risentire tutta quella tua bruciante esistenza che si consumava attorno alla pittura con quella passione e ostinazione che solo la feconda follia sa mantenere. Certo non erano tempi facili per la tua poetica: ti ricordi quei tromboni dell’accademia che tu e i tuoi compagni chiamavate pompieri? Sorridevate dei quegli elmi enfaticamente calati su teste di improbabili e retorici corpi nudi da culturista. Eppure dominavano la scena: ti ricordi di Bouguereau, Meissonier, Cabanel e compagnia, che decidevano dell’accettazione ai Salons e che erano arbitri dell’affermazione artistica?  Ti ricordi la fatica d’essere presenti nell’ufficialità delle manifestazioni artistiche (so, so che alcuni di voi furono costretti a farsi ospitare da un fotografo per esporre i loro dipinti). Beh, caro Vincent, come hai potuto vedere anche tu nel tuo giro per i musei d’arte contemporanea, oggi lo scenario non è molto cambiato. Oggi il Salon lo chiamano Miart, Pac, Mnamm, Moma, ecc. Certo al posto degli elmi lucenti ci sono sporche lattine di bibite schiacciate, al posto dei corpi retoricamente bronzei e unti in cieli con nuvole avvolgenti, ci sono fotografie impiastricciate e video azzurrini. Cosa? Mi chiedi coso sono i video? Beh, caro Vincent, i video sono piccoli schermi simili ad una “lanterna magica” che mandano spesso un solo suono continuo e un immagine che si ripete ossessiva. Credimi non c’è rassegna (cioè i tuoi Salons) che non ne abbia almeno due o tre. Sono almeno cinquant’anni che li fanno: si, Vincent, oltre  mezzo secolo! Come dici? Ma certo, lo so che la vostra poetica non è durata più di un decennio e subito ha filiato impetuose avvincenti evoluzioni pittoriche. Loro no, loro continuano da più di mezzo secolo.

Che poi sono cinquant’anni se parliamo dei video e affini, perché, vedi, se invece parliamo di un mucchio di ferri vecchi, qualche pezzo di legno impastato con piume appiccicato sulla tela, o di un chiodo piantato in un cubo con attorno vetri rotti, allora sappi che sono quasi cento anni che lo fanno: però si definiscono avanguardia! Vedi è come se ai tuoi tempi, mentre tu incendiavi le tele coi colori dei campi di Arles o il tuo amico Gauguin (a proposito, caratterino eh?) dipingeva cristi gialli, io mi mettessi a dipingere come quelli della foresta di Barbizon e sostenessi d’essere io all’avanguardia e voi invece essere ancora vecchi pittori innamorati del colore: te lo immagini come reagirebbe Gauguin?

Eh, si, ma qui non ci sono più Thaiti di salvataggio. Oggi c’è la globalizzazione (non chiedermi di spiegartelo, intuiscilo). Oggi non si distingue più la radice dove sgorga la poetica: vedi un chiodo, una fune, una piega in una tela bianca o un cumulo di stracci, hanno il difetto d’essere uguali ovunque e quindi in un mondo mercantile e globalizzato serve un’etichetta che li contrassegni. E’ difficile distinguere uno straccio tedesco da uno francese. Figuriamoci se possono esistere stracci fiamminghi.... E allora? Allora basta un’etichetta, come ti dicevo, e il gioco è fatto: puoi far nascere la “strach-art”. Bastano un po’ di soldi per far partire un critico pompiere, poi si aggiunge un’assessore ignorante che si affida al sistema dell’arte e mette a disposizione il palazzo pubblico con finanziamenti relativi (per striscioni, mostroni, catalogoni con paroloni a pagine e pagine attorno alla foto dell’operina), ed infine un compiacente museo d’arte contemporanea che ne acquista un po’ (di stracci) e il gioco è fatto: ti stupisci che nessuno dica che sono solo stracci? No, caro Vincent, altrimenti farebbe brutta figura, perché verrebbe etichettato come colui che “non se ne intende”. Come? Mi chiedi se nessuno si accorge che non c’è dif-ferenza tra gli stracci lasciati da un muratore e quelli della sala del museo? Che l’unica dif-ferenza è il contenitore (il museo) rispetto all’indif-ferenza del contenuto (gli stracci)?

 Ah, ma allora ti ci metti anche tu! Allora vuoi fare anche tu come quelli che pasticciando la filosofia con gli stracci poi la chiamano “conceptual-art”, altrimenti i filosofi se ne accorgono.

Ma non facevi il pittore? Ma come, ci hai spezzato il cuore con tutte quelle tue lettere a Theo (a proposito, come sta? come va il commercio dei quadri? Vende? Ops, scusa forse ho toccato un tasto sbagliato). Ti ricordi tutti i tuoi tormenti che costellavano quelle tue missive? Ti ricordi i tuoi dubbi sulla maestria, sulla tua capacità d’essere un buon pittore e disegnatore? Pensa, Vincent, oggi non sarebbe più un problema! Come? Mi chiedi se sono tutti dotati di grande maestria? No, è che la maestria del dipingere e del disegnare non serve più. Non è più una categoria necessaria e sufficiente per partecipare al mondo dell’arte. Si, caro Vincent, puoi essere un ottimo pittore e proprio per questo puoi essere escluso dal sistema dell’arte. Se va bene ti dicono che sei un imitatore del passato. E ti scartano. Ti ricordi quei tuoi ritratti, parlo del postino Roulin, della Mousmée, della Berceuse, dell’Arlesiana, dei tuoi autoritratti, e così via? Ti ricordi come il segno e il colore scavassero l’anima della figura rappresentata? Ti ricordi come gli accostamenti arditi e squillanti dei timbri cromatici esprimessero con potenza persuasiva l’intimo della figura, il suo volto colmo di storia, di intenso vissuto, di densa umanità? Beh, addio Vincent, se lo fai oggi seppure con la sensibilità che il nostro tempo ti suggerisce, ti dicono che non è arte. Come se parlare degli uomini mostrando loro come sono fatti non fosse arte. Si. E’ triste. E chi lo fa è come un clandestino cocciuto che ascolta ancora il fuoco della passione, quella che alimenta l’energia poetica che sta nel raggrumarsi della materia colorata attorno alla forma della pittura.

E’ una discriminazione assurda, lo so. Ed è tanto vero che è assurda che, guarda un po’, esiste solo per le arti figurative: nessuno dice che se scrivo un romanzo non sono uno scrittore, anche se c’è chi sostiene che il romanzo è morto. Nessuno dice che non sono un musicista se suono il violino su partiture sinfoniche anziché la chitarra elettrica. Nessuno dice che non sono un cantante se eseguo spirituals anziché il rap. Ma se faccio pittura figurativa mi dicono che non sono un artista contemporaneo e mi escludono. Come se esistesse una temporalità della poetica: ed ad accusarmi e ad escludermi sono proprio loro, che sono oltre cent’anni (dai tempi di Ciurlionis e poi di Duchamp) che fanno le stesse cose, credimi (permettimi lo sfogo) davvero noiosissime.

Come dici? Mi chiedi se non se ne accorgono? Se per caso non sono forse in malafede? Se sono quindi tutti dei bugiardi che si sono messi d’accordo? Ahi, ahi, ahi! Vincent, qui il terreno si fa scivoloso: sai, girano parecchi soldi attorno alle manifestazioni pubbliche, alla pubblicistica di settore, ai musei e alle aste. Come dici? Conosci anche tu le aste? Si lo so che ormai è un terreno dove tu vinci sempre e alla grande. Ma ti immagini che affare può essere vendere una pagina di un libro con una parola cancellata con un tratto di pennarello che costa solo qualche centinaio di lire, per svariati milioni? Mi dici che anche il Père Tanguy scambiava qualche tubetto di colore per i tuoi quadri. Certo, mi ricordo benissimo, ma vuoi mettere che quantità di produzione si può fare con le paginette cancellate rispetto ai tuoi impegnativi e appassionati dipinti? Come? Mi chiedi se nessuno se ne accorge? No. Nessuno: basta non chiamarle cancellature, ma decontestualizzazioni, e il gioco è fatto.

A risentirci, caro Vincent.

 

 

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