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La critica d'arte oggi
articolo per il n° 9 di "riContemporaneo", Maggio 2015

 

Un tempo si diceva che il critico d’arte era spesso un pittore mancato. Era (e spesso lo è ancora) una sterile consolazione di pittori mediocri che rivendicavano così la loro improbabile superiorità intellettuale.

A tutti coloro che affermano questo postulato va ricordato che, prima che il mercato decidesse delle sorti dell’arte contemporanea, i cosiddetti “critici” sono stati quasi tutti pittori, e che pittori!

Dal Rinascimento in poi chi ha parlato d’arte con autorevolezza sono stati i pittori. Detto in milanese: Offelee, fa el tò mestee. Parliamo di Piero della Francesca, Leon Battista Alberti, Leonardo, Vasari, Baglioni, ecc. (potrei continuare citando almeno una cinquantina d’autori lungo i secoli, giungendo fino a De Chirico e Guttuso).

Questo non vuol dire che nessun altro che non faccia l’artista non possa parlare della produzione artistica (basti pensare all’antichità classica con Platone, Aristotele e Plinio), ma quello che stupisce è che quando non sono gli artisti a parlarne non si ascolta neppure un giudizio qualitativo sul mestiere: la tecnica del dipingere esula dal giudizio, permettendo a chiunque di scomodare espressioni poetiche d’altra natura (per chi lo sa fare) che potrebbero andar bene per qualsiasi immagine comunque “fabbricata”. Tra l’altro, (fateci caso) le categorie che spesso usa la critica contemporanea sono di una tristezza socio-filosofica noiosissima. Sentite spesso parlare del “disagio” dei nostri tempi, dell’”angoscia” del vivere, della “tirannia” del potere, dell’”inquietudine” (ovviamente e solamente “profonda”) del vivere. E questo sia che si commenti un paesaggio, una natura morta o un accattivante nudo. E spesso i cataloghi degli artisti accompagnano questi scritti con la foto del pittore ritratto in posa pensosa, spesso con lo sguardo perso e la mano chiusa a pugno sul mento.

Ma forse queste considerazioni valgono per la sfera del dilettantismo: sia pittorico che critico.

Bene: spostiamoci allora alla critica di successo: avete mai letto in una qualunque pubblicazione (quotidiani, riviste, pubblicistica di settore) una stroncatura di una mostra? Naturalmente no. Ma perché sui quotidiani si leggono recensioni alle mostre solo elogiative e nessuna stroncatura? Perché non avviene come per il teatro e per la musica? Non vi viene il sospetto che ci siano degli interessi da qualche parte? Perché non avviene come a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento dove sui giornali si definivano, con termini allora spregiativi, impressionisti, cubisti e fauves le mostre di quegli artisti? Spesso, oggi, sui giornali voi leggete un testo che è semplicemente un estratto del catalogo della mostra che viene recensita, per cui non avete un giudizio critico ma solo una cosa che merita un solo nome: pubblicità. Persino una rivista ammirevole, come Art & Dossier, allega l’inserto del “dossier” che spesso altro non è che un estratto del catalogo della mostra. Almeno qui c’è il vantaggio del prezzo modesto della rivista rispetto al costoso catalogo ufficiale.

C’è qualcosa oggi che connota la critica d’arte in maniera antropologicamente negativa (so che il termine “antropologico” vi farà sospettare che io mi avvicini alla terminologia dei critici contemporanei, ma riprendetemi dopo che vi avrò detto il perché). Il perché consiste nel fatto che oggi i critici d’arte più di moda e di successo, ci sottraggono la nostra facoltà di giudizio, ci rubano i nostri parametri di gusto, ci dicono cosa (o no) ci debba piacere, in sostanza ci dicono cosa dobbiamo ritenere per prodotto artistico. Insomma ci tolgono intelligenza e sensibilità. Per questo è un furto antropologico, accompagnato spesso dal famoso ricatto, qualora dissentiste dai giudizi di moda: «lei non si intende di arte contemporanea».

Questa rivista “ricontemporaneo” ha il merito di aver riflettuto su sé stessa, essendo una rivista di critica d’arte. Pensateci, non è molto diffuso questo coraggio, anche se il chiasso dell’ufficialità di moda e mode la riduce, forse, a vox clamantis in deserto.

P.S. Tempo fa ero a Torino dove accompagnavo un gruppo a visitare la mostra Freedom. Not genius in cui erano esposte diverse opere di Jeff Koons alla Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli. In una sala era esposta l’opera “Titi”. Si tratta di un’imitazione perfetta (in acciaio cromato) dei palloni gonfiati che si trovano nei Luna Park e che riproduceva il famoso canarino che nei cartoni animati è inseguito dal gatto Silvestro. Un bimbo, per mano alla sua mamma, davanti all’opera, esclama: «Mamma, guarda! Me lo compri?». Risposta della mamma: «Ma sei scemo? Sai cosa costa?».

Non ho trovato in nessuna recensione giornalistica della mostra dello stupore dei bimbi, ma solo commenti para filosofici che fanno due danni in un colpo solo: all’arte e alla filosofia.

 

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