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LA BELLE DAME SANS MERCI
2011, Mostra alla Galleria Armanti di Varese
(per vedere i dipinti della mostra)
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Riflessioni sulla Femme fatale, con qualche divagazione. L’ultimo ciclo pittorico di Carlo Adelio Galimberti

di Mauro Corradini

Provengono da molti luoghi della storia culturale (letteraria, storica, filosofica) le figure di donna che Carlo Adelio Galimberti ha allineato per parlarci di amori, passioni, tradimenti; per parlarci soprattutto di quella profonda ambiguità, così umana, definita dalla figura femminile, che turba e inganna con la sua bellezza: da Eva, da sempre prototipo di questo percorso interpretativo, a Marylin, ultimo esempio di una bellezza, fragile per sé, prima ancora che per gli altri, da Giuditta e Dalila, che eseguono un compito contraddicendo gli impulsi del cuore, fino alle eroine di un diverso conflitto interiore, da Armida a Giulietta da Elena a Cleopatra, che l’artista tende a ricollocare in una storia non consueta, in una rilettura/interpretazione meno scontata. Ma procediamo con ordine: magari iniziando da alcune esposizioni che Galimberti ha realizzato (da Mythos a Perseide), per sottolineare la sua antica consuetudine con il mito classico, o prendendo il titolo a prestito dalla sua attività di studioso di storia dell’arte, intendiamo il suo recente volume Mogli, garzoni e amanti, in cui indaga realtà e finzione, armonie e passioni, nella cultura artistica dell’età del Rinascimento. Nell’Introduzione al volume, racconta Carlo Adelio che la pittura nacque in una notte lontana dal sentimento, d’amore e d’abbandono, di una fanciulla ateniese, che nel profilo dell’amante disegnato su un muro bianco di calce, fissò la “cosa bella” che si allontanava da lei, per un’avventura che la storia ci ha tramandato, quella del vello d’oro.

La grafia di Carlo Adelio quando dipinge storie è rigorosa; analizza il racconto, fissa per se stesso le coordinate di un’interpretazione che gli appartiene, e probabilmente ha cullato a lungo dentro di sé; poi scompagina le carte, trasferisce le ambientazioni in luoghi diversi, lontani rispetto a quelli della tradizione; modernizza gli abiti, soprattutto lascia che lo studioso e il fine conoscitore riemergano, regalandoci citazioni che vanno dalla classicità umanistica agli echi di quel disfarsi della norma, che prende corpo sul finire del Diciannovesimo secolo. Non appaia casuale il riferimento: è la stagione in cui la femme fatale fa la sua comparsa dirompente nella storia della cultura visiva, dalla Psiche di Klinger (ma anche dalla sua Eva, fino alle straordinarie storie del Guanto), alla Circe di Von Stuck, senza scordare che ai primordi di questo movimento vanno forse collocate la Salomé di Moreau e le figure di una sognata classicità im-possibile di Bocklin. Ha sempre amato raccontare una storia, Galimberti; e continua nel suo esercizio di affabulazione, divertendosi tuttavia a sottolineare affinità e consuetudini espressive, ricavate dalla frequentazione della storia dell’arte (che dire della svolazzante bellezza della Venere botticelliana, ridotta a frammento che si muove nell’aria?), ma sovente ribaltando le nostre attese conoscitive, depositate e lasciate poltrire nei cassetti della memoria. Carlo Adelio riprende con cura, modernizza, rimuove il contesto tradizionale, aggiunge nuove apprensioni e nuove dimensioni della contraddizione e dell’ambiguità, per darci una pensosa Elena alle prese con i suoi due amori, o un’inquieta Giulietta, che si pone la domanda sul senso dell’avventura che la sta avviluppando, fino alla Salomé danzante in una scena di strada, dove tuttavia non manca il richiamo all’invito sotteso, l’erotismo, e non manca Erode, che sobbalza dallo scranno, unico forse capace di intuire in quel momento la pericolosità di una china per lui ormai irreversibile.

Per leggere tutto questo, per entrare in questo mondo, vero, narrato e sovente “rovesciato”, per entrare nella contraddizione, umana, troppo umana, che attanaglia le figure, occorre rinnovare dentro di noi il gusto del narrare, la pittura come arte che svela, il senso del ritmo narrativo e contemporaneamente il gusto dell’Autore di travolgere le troppo fragili barriere della convenzione; ogni storia diviene altra, senza perdere il senso di questo accadere, il sottile mistero di una bellezza che conduce alla perdizione. Solo che dietro a Carlo Adelio non c’è un secolo romantico, ma uno più banalmente disincantato; la perdizione non è un male che consuma e corrode certezze e dimensioni dell’esistere, ma appare come la condizione di una sconfitta inevitabile. Come l’innamoramento, il cadere (già, in amore si cade con la stessa naturalezza dell’acqua che precipita da un dirupo creando una cascata; e con lo stesso fragore) in una situazione che ha poche vie di uscita, caso per caso, la morte, l’allontanamento, la perdita. Ad iniziare dall’Eden. Memento necessario, oggi, quando la perdita fa parte di noi: non possiamo nemmeno scrivere, come la poesia di quasi un secolo fa A coloro che verranno; la nostra epoca tende a cancellare il passato e il futuro, tutto ripiegata sul presente; sconfitta che Carlo Adelio avverte e richiama, senza andare oltre, perché teme di non essere ascoltato. Preferisce narrare, pittare, scrivere racconti d’immagini che hanno il sapore della storia e l’inquietudine dell’attualità. Così deve essere ogni vicenda narrata sui solidi impianti della costruzione, razionale, prospettica, emozionale; come solo può forse essere oggi una pittura che si interroghi sul senso della storia.

Brescia, settembre 2011

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