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Perché continuo a dipingere
articolo per il n° 7 di "riContemporaneo", Maggio 2014

 

Cosa distingue la qualità in arte? Se per qualità artistica intendiamo le caratteristiche di un oggetto, di un prodotto, di una performance, di uno scritto che per quelle medesime caratteristiche venga riconosciuto come artistico, allora oggi dobbiamo arrenderci, perché la dilatazione dell’ammissibile al mondo dell’arte è oggi talmente vasta da sciogliere qualsiasi confine in cui sia possibile recintarla e riconoscerla.

Basta richiamare la potente affermazione tautologica di Dino Formaggio per toglierci ogni scrupolo di definizione: “L’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte” [1].

Perché l’orinatoio di Duchamp se esposto in una mostra è un oggetto d’arte e collocato in un cesso no? Perché la scatola del detersivo Brillo realizzata da Andy Warhol è artistica e sullo scaffale di un supermercato no? Perché Concetto spaziale di Fontana è un quadro e una tela tagliata accidentalmente no? Perché l’armadietto con i defibrillatori di Damien Hirst esposto a Palazzo Chiablese a Torino è un’opera d’arte e in un ospedale no?

Quella del mondo dell’arte contemporanea è una capacità d’inclusione d’ogni metafora o simbologia così vasta che rende la provocazione dello scandaloso Jean Genet (il discusso scrittore francese) soltanto un’affermazione da educanda: “La poesia è l’arte di utilizzare la merda e di farvela mangiare” [2].

Da quando Duchamp ha esposto la sua Fontana è passato un secolo, ed è tutt’oggi considerata opera d’arte. Per cui tramonta anche la speranza di quei benpensanti che sperano che la storia faccia un giorno giustizia dell’arte contemporanea.

Allora non c’è più nulla di sicuro per poter definire la qualità d’un oggetto per cui lo riconosciamo come opera d’arte? No. Non c’è.

Anzi, no! Un sistema che attribuisca qualità artistica all’opera è stato in realtà inventato: sono quei confini che prima avevo detto che erano ormai sciolti. Ma mi devo ricredere. Ne sono stati costruiti, di confini, con precisione e sistematica organizzazione. Sono quei muri che ospitano le varie manifestazioni dell’arte: si chiamano Biennali, Gallerie, Musei, ecc. Fuori, invece del titolo dell’esposizione, dovrebbe esserci scritto: “Occhio! Qui dentro c’è l’arte”.

Ma allora? Che ne è della pittura e della scultura che erano le colonne esclusive dell’espressione ar-tistica riconosciuta?

Anche qui, dall’impressionismo in avanti, ogni dilettante allo sbaraglio o scarabocchio infantile fat-to da un adulto (Transavanguardia) è stato legittimato. Basta che abbia un censore o uno scribacchino qualsiasi che scomodi incoerenti argomenti filosofici e anche lo scarabocchio diventa artistico. Oggi è necessaria la mediazione d’un critico per poter tentare di considerare artistico anche quello che, fuori da quelle mura che ricingono l’arte, nessuno riconoscerebbe come tale.

A Firenze, nel Rinascimento, «anche l’ultimo conciatore di pelli aveva imparato a guardare e commentare l’arte come e meglio di un dotto studioso o di un elegante cortigiano» [3]. Ma questo è un mondo che se n’è andato, ed i musei ne sono la gloriosa tomba, dove le opere d’arte sono state collocate togliendole dalle piazze e dalle chiese.

Che speranza c’è che qualcosa riesca a cambiare questo scenario? Nessuna.

Per questo io continuo a dipingere. Perché non ne posso fare a meno. Perché quando lo faccio, godo. Perché sono innamorato delle materie dei colori e dell’aspetto delle cose e dell’umanità che mi circonda. Perché sono un figurativo realista. Ed anche perché penso sia giusto quello che scrisse Checov in uno dei suoi appunti: «si dà un grande aiuto agli uomini, qualunque cosa ne risulti poi, mostrando loro in quale modo essi sono fatti».

 

Note
1 - D. Formaggio, Arte, ISEDI, Milano 1977, p. 12.
2 - Sul proliferare delle deiezioni fisiologiche (suppurazione, sudore, sperma, sanguinamenti, ecc.) nell'arte contemporanea, cfr. J. Cleir, De immundo, Abscondita, Milano 2005.
3 - A. Forcellino, Raffaello. Una vita felice, Laterza, Bari 2006, p. 84.

 

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